Ronnie Hellström, uno svedese a Kaiserslautern

Come tra i pali aspettava solo il fischio finale. Ronnie Hellström, malato da tempo, è scomparso il 6 febbraio. Con lui se ne va a causa di un tumore una leggenda del Kaiserslautern e uno dei portieri più iconici della Bundesliga. Un “numero 1” amatissimo dai tifosi dei “Rote Teufel”, i “diavoli rossi” che arrivò in Germania a metà degli Anni Settanta. A quell’epoca i calciatori stranieri erano pochi e per lo più provenienti dagli altri Paesi di lingua tedesca (Austria e Svizzera), dalle vicine Paesi Bassi e Belgio e dalla Scandinavia. Il baffuto Ronnie, capelli lunghi e biondi, fu acquistato a 25 anni dall’Hammarby, dove aveva raccolto 171 presenze in otto anni, giocando ai suoi esordi insieme al mito Lennart “Nacka” Skoglund. I “Rote Teufel” li aveva conosciuti nel 1973. La Svezia, per prepararsi allo spareggio mondiale contro l’Austria in programma a Gelsenkirchen, era stata a Kaiserslautern, dove aveva sfidato la squadra di Bundesliga. Era finita 1-0 per gli scandinavi, per cui giocava l’ala Roland Sandberg e Hellström era stato uno dei protagonisti, negando due gol a Klaus Toppmöller. A fine partita Sandberg ospita il portiere e gli fa conoscere la città. Qualche mese dopo Ronnie, che è in patria è un dilettante e che ha pure recitato nel film “Fimpen il goleador” insieme ad alcuni suoi colleghi , firma un contratto con il Kaiserslautern. Da lì a qualche settimana in Germania Ovest sarebbe cominciato il Mondiale. Nella rassegna iridata, a cui già Ronnie aveva partecipato nel 1970 (sua l’indecisione che consegnò all’Italia la vittoria nel girone eliminatorio), Hellström verrà eletto miglior numero uno del torneo. Nel girone eliminatorio la Svezia non prende neppure un gol e nella seconda partita del raggruppamento di semifinale Ronnie fa impazzire con le sue parate i giocatori tedeschi. Alla fine la Nationalmannschaft vincerà 4-2, ma solo grazie a due reti nel finale di Grabowski e Uli Hoeneß. Due giocatori che da lì a poco sarebbero diventati suoi avversari.

Con il Kaiserslautern è amore a prima vista. Hellström, aiutato dal connazionale Sandberg si ambienta facilmente anche perché capisce e parla un po’ di tedesco (l’ha studiato a scuola e l’ha “rinfrescato” prima del suo arrivo). Sarà di casa al “Betzenberg” per dieci anni. Sarà un decennio in cui lui e i “Rote Teufel”, con in campo giocatori come Hans-Peter Briegel, Friedhelm Funkel e Andy Brehme, saranno ai vertici del calcio tedesco, ma non vinceranno nulla. Sotto la guida di Erich Ribbeck prima e Karl-Heinz Feldkamp dopo otterranno due terzi posti nel 1979 (con quattordici partite senza sconfitte) e nel 1980 e due finali di Coppa di Germania perse, nel 1976 e nel 1981. Il Betzenberg diventa un campo difficile per tutti, tanto che Paul Breitner bandiera del Bayern Monaco riguardo alle trasferte a Kaiserslautern (una sola vittoria in dieci anni) era arrivato a dire più o meno. “Non ci andiamo neppure, è meglio mandargli già i punti per posta”. E il merito è anche di Hellström, diventato un idolo dei tifosi, che a ogni partita lo salutano con un “Roooooooonie” ripetuto, a cui lui rispondeva alzando il guanto. Un tipo simpatico lo svedese, con una specialità: parare i calci di rigore. In dieci stagioni di Bundesliga ne parerà più di dieci, anche se il più importante lo neutralizzò il 17 marzo 1982. Si giocava il ritorno dei quarti di finale di Coppa UEFA tra i “Rote Teufel” e il Real Madrid di Vujadin Boškov. All’andata gli spagnoli, che in campo avevano il tedesco Uli Stielike ma anche Vicente del Bosque e José Antonio Camacho, avevano vinto 3-1. Un risultato largo, ma non larghissimo. E al “Betzenberg” per i Blancos, senza Santillana e Juanito, si mise malissimo. Al 14′ erano sotto 2-0, all’intervallo 3-0 per i tedeschi. Sul 4-0 per il Kaiserslautern il Real, in 9 uomini, ha l’occasione per riaprire la partita. Funkel, autore di una doppietta in aperta, salva un gol con la mano.

Ammonizione (non c’era ancora il rosso automatico) e rigore. Sul dischetto va Cortés, ma Hellström, reduce da un grave infortunio alla spalla para. Al 90′ con gli spagnoli in otto uomini sarà 5-0 per i tedeschi. Turno passato con cocente eliminazione in semifinale subita ai supplementari dagli svedesi del Göteborg. Ronnie giocherà in Bundesliga, per altri due anni, prima di ritirarsi. Per onorarlo, lui che per rimanere ai “Rote Teufel” aveva rifiutato la corte dei New York Cosmos di Beckenbauer, viene organzzata una partita d’addio. Non è mai successo a un calciatore straniero in Bundesliga. Per giocarla il 24 aprile 1984 arrivano a Kaiserslautern una lunga fila di campioni, tra cui Paul Breitner, Sepp Maier e pure “Kaiser Franz”. È una festa grandiosa per uno dei più forti portieri mai passati per la Bundesliga, in un’epoca gli Anni Settanta e Ottanta dove i numeri uno di livello in Germania non mancavano. Dopo il ritiro Ronnie, che disputerà solo un’altra partita nel 1988 mentre è allenatore dei portieri del GIF Sundvall, rimarrà sempre legato al Kaiserslautern e lavorerà per la consociata svedese di un’azienda della Repubblica Federale, operante nel settore del “fai-da-te”. Nel 2017 è uscita la sua biografia, tradotta in tedesco nel 2019 con un titolo eloquente “Der fliegende Wikinger”, il vichingo volante. Nel 2021 gli hanno diagnosticato un cancro all’esofago, rivelatosi incurabile. Alla sua morte l’hanno pianto in tanti, soprattutto quei ragazzi che popolavano il “Betzenberg”, quando lui era tra i pali.

Il breve sogno di gloria del Blau-Weiß 90 Berlin

Insolvenz e Konkurs. Due parole per definire un incubo, quello del fallimento. Negli ultimi anni, segnati anche dalle difficoltà legate alla pandemia, l’hanno vissuto diversi club, soprattutto di 3.Liga e di Regionalliga. L’ultimo è il Türkgücü München, club di terza serie che ha avviato l’Insolvenzverfahren, la procedura di fallimento. Con questa decisione sembrerebbe finire il sogno della società, fondata da immigrati turchi, di diventare la seconda squadra di Monaco, coltivato dal presidente e finanziatore Hasan Kivran. Un’aspirazione (il progetto era arrivare in 2.Bundesliga nel 2023) che ricorda per certi versi, quello che accadde a Berlino negli Anni Ottanta. In quel momento, in una città divisa ancora dalla ferita del Muro, nella parte occidentale della metropoli le due squadre che andavano meglio erano l’Hertha e il Tennis Borussia Berlin. Nelle serie inferiori militava invece il Blau-Weiß 90, società con una buona tradizione prima del 1945 (con un titolo tedesco nel 1905 con il nome di Union 92 Berlin) e che aveva la sua sede nel quartiere di Mariendorf.

In quel club, all’inizio del 1983 arrivò Konrad Kropatschek, un professionista del marketing, con un passato non propriamente limpido. Nel 1976 era stato condannato a quattro anni di carcere per frode dal tribunale di Würzburg e la sua vicenda era stata anche “protagonista” di Aktenzeichen XY… ungelöst, un programma dedicato ai crimini della ZDF, il secondo canale pubblico tedesco. Piccolo particolare: nessuno al Blau-Weiß 90 era a conoscenza delle vicende giudiziarie di Kropatschek. O meglio nessuno si era mai preso la briga di fare un controllo. Il sogno del neo manager era, insieme alla compagna Cornelia Härtfelder, soprannominato “Rotkäppchen” (un tipo di spumante), di portare i biancoblù, all’epoca in terza serie ai vertici del calcio cittadino e in Bundesliga. Per farlo Kropatschek e consorte creano un vero e proprio modello di business. L’agenzia della Härtfelder mette sotto contratto e paga di tasca sua giocatori e Kropatschek ha ampi poteri per i trasferimenti, addirittura carta bianca per quanto riguarda quelli estivi. Al Blau-Weiß 90 gli lasciare fare. È molto bravo a trovare sponsor e finanziatori (una grande qualità soprattutto per le difficoltà legate alla divisione di Berlino), oltre inizialmente a pagare in maniera puntuale. E poi la squadra va benissimo. In due anni il Blau-Weiß 90 passa dalla Oberliga Berlin, la terza serie alla Bundesliga. La promozione è festeggiata da un’iconica apparizione di Leon Bunk, il capocannoniere del torneo con 26 reti, a “Aktuellen Sportstudio”, dove in coppia con il cantante Bernhard Brink, intona insieme ai compagni la canzone “Wir sind heiß auf Blau-Weiß“.

Il problema è che il “sistema Kropatschek” crolla. L’agenzia della sua compagna non riesce a reggere i costi, andando in difficoltà economiche. E in più c’è un altro “nodo”. L’agenzia ha venduto a terzi, segnatamente dei finanziatori, i diritti sui trasferimenti dei giocatori. Nel dicembre 1986 per Kropatschek, ormai fuori dalla società e la compagna, inseguiti dai creditori, scattano le manette. Ci sono più 1,3 milioni di marchi di debiti. A salvare il club dalla bancarotta, l’imprenditore di Norimberga Hans Maringer, uno dei creditori di Kropatschek. I soldi però sono pochi e Bernd Hoss l’allenatore ha a disposizione una rosa con pochissima esperienza. La stella l’ha scovata ad Augsburg proprio Maringer, già attivo nei club locali della Franconia. Si chiama Karl-Heinz Riedle e sarà quello che terrà a galla con i suoi dieci gol la squadra per tutta la stagione. Non bastano però per la salvezza. I bianco-blù retrocedono in 2.Bundesliga, dopo aver messo in fila 21 partite senza vittorie. I Blau-Weiß 90 sfioreranno il ritorno nella massima serie nel 1989, ma butteranno l’occasione al vento perdendo le ultime tre gare del campionato. Sarà l’inizio della fine. Mentre calano gli spettatori aumentano e scappano gli sponsor aumentano i problemi finanziari. Le difficoltà economiche nel 1992, con la squadra in 2.Bundesliga, porteranno la Federazione tedesca a non concedere al club la licenza per disputare la stagione seguente. La società si scioglie. Ne nascerà un’altra, il Blau-Weiß 90 Berlin che però formalmente non è erede della “vecchia” società e che ora milita in Oberliga Nordost, in quinta serie.

Uwe Seeler, interista mancato

Szymaniak, Karl-Heinz Rummenigge, Hansi Müller, Brehme, Klinsmann, Matthäus, Sammer, Podolski e per ultimo Robin Gosens. Sono tanti i giocatori tedeschi che hanno vestito la maglia dell’Inter. Tra di loro, ci sarebbe potuto essere anche uno dei più grandi talenti della storia del Fußball, Uwe Seeler. Una storia, quella del matrimonio mai avvenuto tra i nerazzurri e l’attaccante classe 1936 che inizia più o meno 60 anni. È il 1961 e Seeler, figlio e fratello di calciatori, è già una stella. Con l’Amburgo ha vinto nel 1960 il campionato tedesco, conquistando tra il 1954 e il 1961 per sei volte il titolo di cannoniere della Oberliga, il campionato in cui militava con il HSV e all’epoca uno dei gironi che componevano la massima serie. Con la Nazionale della Germania Ovest, con cui ha debuttato neanche 18enne, all’indomani del “Miracolo di Berna”, ha già partecipato a un Mondiale, quello di Svezia, dove è stato uno dei migliori della selezione tedesca, classificatasi al quarto posto.

È un giocatore particolare, Uwe. Ha tecnica, velocità, astuzia e una generosità fuori dal comune. È un leader umano, oltre che tecnico. Complice la Nazionale e le Coppe Europee con l’Amburgo le sue qualità iniziano a notarle anche fuori dalla Repubblica Federale. Lo cerca diversi club, ma soprattutto l’Inter. I nerazzurri di Angelo Moratti sono decisi. Una sera dell’aprile 1961 a casa Seeler suona il telefono. Risponde Ilka, sua moglie. “Vieni al telefono che c’è un signore dall’Italia che ti vuole parlare”. È un emissario che gli spiega la volontà della squadra di Milano. Se l’accetterà dice il dirigente nerazzurro la sua famiglia non avrà più problemi di soldi. Tre anni di contratto, una villa, auto, autista e una scuola per le sue tre figlie. Più mezzo milione di marchi in contanti.

Per discutere la possibilità di trasferirsi a Milano, per Seeler si muove addirittura l’allenatore Helenio Herrera. La sera del 26 aprile 1961, dopo aver segnato il gol che aveva portato l’Amburgo alla “bella” nella semifinale di Coppa dei Campioni, Uwe va all’Atlantic Hotel, dove il “Mago” è arrivato dopo aver assistito alla partita del “Volksparkstadion”. È in una suite e l’incontro inizia intorno alle 21. Con Seeler ci sono un interprete e un procuratore. Dopo aver commentato l’incontro Herrera va diritto al punto. “Signor Seeler, noi vogliamo lei. È il miglior attaccante del mondo. Sa il catenaccio è un bel sistema di gioco, ma si può farlo se qualcuno segna. E Lei questo lo sa fa bene”. Gli mostra anche una valigia. Dentro c’è più di un milione di marchi, in contanti, nel caso in cui Seeler si decidesse a trasferirsi a Milano. L’ingaggio sarebbe di 500mila marchi l’anno, oltre a premi e i benefit già proposti in precedenza. Le cifre sono monstre, soprattutto se comparate con il salario medio di un lavoratore dell’epoca (6700 marchi) e a quanto Uwe percepiva all’Amburgo. Per le regole stabilite dalla DFB come giocatore di Oberliga poteva infatti ricevere al massimo 400 marchi al mese. Seeler chiede tempo. Torna a casa, dove l’attende Ilke, la moglie, che gli prepara un panino.

Su quello che succede nelle ore successive si mischiano realtà e leggenda. Ci sono di sicuro il confronto con papà Erwin, con sua moglie e una telefonata con il ct Sepp Herberger, uno degli uomini che lui, ricambiato, stima di più. “Rimani qui, tu non sei la persona che si può mandare all’estero. Legionäre [chi va a giocare all’estero] si nasce”. Di leggendario c’è un passeggiata notturna che Uwe avrebbe fatto nel centro d’allenamento dell’Amburgo. Lì avrebbe preso la decisione di rimanere al HSV, comunicata poi a Helenio Herrera. Il “Mago”, il primo allenatore a essere pagato come un giocatore, reagisce con un pizzico d’incredulità ma mostra profondo rispetto.“Signor Seeler, non avevo mai visto una persona rinunciare a così tanti soldi”. Un “no” che la bandiera dell’Amburgo spiegherà anni dopo con il fatto che lui si consideri un “fanatico della sicurezza”, intesa come stabilità. E quella italiana per Uwe sarebbe stata una scommessa. A convincere Seeler contribuisce anche Adi Dassler, patron di Adidas. Gli offre la rappresentanza della sua azienda per tutta la Germania del Nord. In altre parole una prospettiva anche per il dopo carriera. La scelta di rimanere ad Amburgo farà crescere il mito di Uwe. Che si ritirerà undici anni dopo, nel 1972. Sempre fedele ai colori del HSV e a quelli della Nazionale.

Heinrich Czerkus, un resistente a Dortmund

Delle 107 stelle della Walk of Fame del Borussia Dortmund solo tredici ricordano eventi e persone che risalgono a prima del 1945. Una di queste, la tredicesima, posta all’angolo tra Weißenburger Straße e Güntherstraße nell’attuale zona di Cityring-Ost, è dedicata a Heinrich Czerkus. Classe 1894, originario di Minge, città all’epoca parte dell’Impero Tedesco e oggi piccolo villaggio della Lituania, Czerkus è stato il primo Platzwart, addetto al campo della storia del club. Tra il 1924 e il 1937 si è occupato infatti di tenere nelle migliori condizioni il Weiße Wiese, la prima “casa” del BVB. Heinrich però aveva anche un’altra attività. Di professione fabbro, stabilitosi a Dortmund nel 1920, è stato fin dai tempi della Repubblica di Weimar un attivista del Kommunistische Partei Deutschlands, il Partito Comunista Tedesco. Cassiere della sua sezione, quella di Borsigplatz dal 1921, nel 1925, a causa della crisi che sta colpendo la Germania, rimane senza lavoro, diventando per breve tempo uno dei leader del collettivo dei disoccupati di Dortmund. E anche quando viene assunto al BVB non abbandona la militanza. Fa discorsi, partecipa ad eventi, tanto che la polizia lo tiene sotto osservazione. È popolare però tanto che nel marzo 1933, quando ci sono le elezioni, locali e nazionali, Czerkus viene eletto al consiglio comunale di Dortmund nella lista Kampfgemeinschaft der Arbeitern und Bauern, il fronte comune dei lavoratori e dei contadini. Sui banchi di quell’assemblea non siederà mai, perché alle consultazioni nazionali ha vinto il Partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler e i candidati comunisti eletti vengono dichiarati decaduti su ordine di Hermann Göring. L’attività di Czerkus e dei suoi compagni diventa clandestina. A proteggerlo alcuni membri del BVB. In molti sanno della sua militanza, ma pur non condividendo i suoi ideali, nessuno lo denuncia.

August Busse il presidente fa di più. Come racconterà il figlio del dirigente Gerhard grazie a un poliziotto che è il suo vicino di casa, tiene informato Czerkus sulle indagini della Gestapo e gli consente di dormire in caso sia in pericolo negli spogliatoi del Weiße Wiese. E alla fine del 1944, quando ormai Czerkus non lavora più da sette anni per il BVB (che nel frattempo si è trasferito al Rote Erde), Busse affida al suo ex “addetto al campo” una tipografia al numero 60 di Oesterholzstraße. Da lì usciranno tra gli altri volantini e manifesti contro il regime fatti circolare clandestinamente. Agli inizi del 1945 Czerkus viene arrestato e portato successivamente alla sede centrale della Gestapo. Lo torturano per fargli rivelare il luogo dove ha stampato i volantini. Lui, che in quei giorni ha al suo fianco Franz Hippler, pure lui comunista e responsabile della sezione pallamano del BVB, tace. Il venerdì santo del 1945 i nazisti che vedono ormai avvicinarsi le truppe alleate, prelevano i detenuti dalla prigione della Benninghofer Straße e li portano a Rombergpark. Li uccidono tutti, gettandoli nei crateri lasciati dai bombardamenti. Sono circa trecento, resistenti, prigionieri di guerra, lavoratori forzati. Tra di loro Franz Hippler e Heinrich Czerkus. Il suo corpo sarà ritrovato il 19 aprile. Dal 2004 a Dortmund si corre la „Heinrich-Czerkus-Gedächtnislauf“, la corsa del ricordo e nel 2009 al Rote Erde è stata posta una targa per ricordare Czerkus. Non l’ha dimenticato nessuno, neppure la città, che gli ha dedicato una strada e dove al 42 di Schlosserstraße è stato posta una pietra d’inciampo. Per ricordarsi di uno che ha resistito, senza mai piegarsi

Il segreto di Heinz Bonn

L’hanno ucciso in un appartamento di Hannover con cinquanta coltellate. Ma nessuno ha mai scoperto il nome del colpevole. La fine di Heinz Bonn è piena di segreti come la sua vita. Nato nel 1947 a Siegen, in Nordrhein-Westfalen, non lontano da Colonia,“Bonni” fin da bambino ha un sogno: giocare in Bundesliga. È un difensore con ottima tecnica, sa impostare e diventa un punto fermo prima delle giovanili del Niederschelden/Gosenbach e poi dello Sportfreunde Siegen, il club principale della sua città. Quando i biancorossi retrocedono in Landesliga, Bonn, il cui modello è Berti Vogts, prova a fare il salto di qualità. Va a un provino del SV Wuppertaler, formazione che l’anno precedente è arrivata quinta in Regionalliga West, non lontano dalle posizioni che valevano la Bundesliga. Bonn porta i capelli alla moda e si presenta al Wuppertaler Stadion am Zoo con un scatolone, come unico bagaglio.

Ad accoglierlo c’è Horst Buhtz, tecnico ed ex giocatore del Torino di metà Anni Cinquanta. Insieme a lui ci sono il bomber Günter Pröpper ed Emil Meisen il “libero” della prima squadra. “Quanti anni hai, ragazzo?” gli chiede Buhtz. “22” gli risponde il ragazzo venuto da Singen. Lo fa allenare, poi a fine seduta gli batte sulla spalla e gli dice. “Se riesci ad andare da qui fino a quel posto senza far cadere la palla, ti facciamo un contratto”. Heinz prende la palla e la porta senza difficoltà fino a dove gli ha indicato l’allenatore. “Non avevo mai visto un difensore così tecnico, un genio del pallone” dirà Buhtz. Il Wuppertaler SV lo ingaggia insieme ad altri cinque giocatori. L’obiettivo dichiarato è la promozione in Bundesliga. Nelle successive due stagioni il club del Nordrhein-Westfalen la mancherà per poco, ma “Bonni” diventa uno dei difensori più interessanti della seconda divisione. Unisce la grinta alla tecnica. Per lui, 23 anni, inizia a crescere l’interesse delle “grandi” di Bundesliga. Schalke, Hertha, Colonia. Bonn sceglie l’Amburgo che lo acquista per 75mila marchi.

L’annuncio, dato dal tecnico Klaus-Dieter Ochs arriva ad aprile del 1970. La più scettica sul trasferimento rimane la mamma di Heinz, preoccupata dalla distanza tra Singen e Amburgo, ma soprattutto dell’impatto del figlio con la metropoli sul Mare del Nord.

Al HSV qualche dubbio c’è. A esprimerli (a posteriori) Charly Dörfel, leggenda ed esterno sinistro del club. “Bonn non era un fenomeno, era un giocatore di seconda divisione, ma perché la stampa fa così tanto rumore?” dirà anni dopo. Ad Amburgo per la prima volta Heinz sente la pressione. Ha paura. Ha paura di fallire, ma anche ha paura che qualcuno scopra il suo segreto. Heinz è omosessuale, ma nessuno lo sa. Nella Germania Ovest non ci sono calciatori apertamente gay, anche perché nel codice penale tedesco è ancora in vigore, seppur parzialmente, il paragrafo 175 che punisce i rapporti omosessuali. Per non destare sospetti “Bonni” dà di sé l’immagine di duro. Dichiara che l’unica cosa di cui ha paura è il dentista, si allena in maniera maniacale, fa pesi in palestra mentre gli altri si riposano e nella prima uscita stagionale contro i Glasgow Rangers Bonn mette fuori combattimento Willie Hen­derson, esterno della Nazionale scozzese. Sembra un duro, ma non è un fenomeno. In molti lo capiscono il 26 settembre 1970. Il HSV affronta in trasferta l’outsider Rot-Weiß Oberhausen. Il tecnico Ochs ha molti problemi di formazione con lo stesso Bonn che ha fastidi al menisco e i postumi di una commozione cerebrale. Alla richiesta dell’allenatore di giocare però risponde di sì. La partita è catastrofica. Hans Schumacher, il suo avversario, fa cinque gol. Alla fine è 8-1 per Rot-Weiß Oberhausen. Da lì inizierà la sua discesa. Con la maglia dell’Amburgo giocherà nei successivi tre anni solo 13 partite. In mezzo quattro operazioni e alcuni tentativi di rientro, l’ultimo nell’ottobre 1972 contro il Kaiserslautern. Dopo l’esperienza al HSV Bonn andrà all’Arminia Bielefeld, facendo ogni due settimane la spola con Amburgo. Per nostalgia di casa dirà. La vita di Heinz Bonn dopo il ritiro si inabisserà, con un sogno infranto (quello di aprire una macelleria), una pensione di invalidità sportiva e il trasferimento ad Hannover. Ad accompagnare i suoi Anni Ottanta la solitudine e l’alcol. Fino al 5 dicembre 1991, quando una donna chiama il commissariato di Hannover-Linden, dicendo di aver scoperto nell’appartamento vicino un cadavere. È quello di Heinz Bonn e probabilmente è lì da una settimana. L’assassino è un gigolò, ma nessuno saprà il suo nome. Come nessuno sapeva che Heinz Bonn era gay. Di lui si dimenticheranno in tanti. A ricordare la sua storia ora c’è l’Amburgo, che a “Bonni” e agli atleti omosessuali ha dedicato un’esposizione nel suo museo, aperta fino alla fine di gennaio 2022.

Steffen Baumgart, un outsider in campo

Il 5 gennaio ha compiuto 50 anni. Steffen Baumgart, allenatore del Colonia, è uno dei tecnici emergenti della Bundesliga. “Baumi”, come lo chiamano affettuosamente i tifosi degli Effzeh, prima di sedersi in panchina però è stato anche un calciatore. E nemmeno di basso livello. Nato nel 1972, a Rostock, nel nord di quella che era a quei tempi la Repubblica Democratica Tedesca, figlio e nipote di allenatore di pallamano, la sua passione è sempre stato il Fußball. Gli inizi alla Dinamo Rostock-Mitte come portiere, poi a 14 anni, anche in seguito a una misurazione del polso che aveva previsto una sua crescita al massimo fino all’1,60 il suo spostamento a “giocatore di movimento”. Fuori dai pali Steffen è bravo tanto che ad avercelo sul suo taccuino è la Dinamo Berlino, la squadra che in quel momento dominava il calcio della DDR e che “rastrellava” i migliori talenti del Paese. A opporre il rifiuto al trasferimento al settore giovanile del club berlinese, suo padre, oltre che allenatore in precedenza portiere, sempre di pallamano. Avrà ragione perché a 17 anni Steffen, ormai di professione attaccante, esordisce nella DDR-Liga, la seconda divisione della Germania Est, con la maglia della Dinamo Schwerin, club dell’omonima città del nord della Repubblica Tedesca. Con la squadra del Mecklenburg-Vorpommern Steffen, che ha svolto il suo servizio militare come poliziotto essendo la Dinamo legata agli apparati di sicurezza, debutterà in prima divisione e si arrampicherà nel 1990 fino alla finale della FDGB-Pokal, la Coppa nazionale della DDR. Quella formazione, che in porta aveva Andreas Reinke, futuro campione di Germania con il Kaiserslautern nel 1998, non conquisterà il trofeo ma visto che Dinamo Dresda è qualificata anche per la Coppa dei Campioni, viene ammessa alla Coppa delle Coppe. Sarà un’avventura di un solo turno, ma storica per il club.

“Baumi” nel 1991, con la Germania appena riunificata, lascia Schwerin. Non lo fa come i campioni Sammer e Doll per dei top club della Bundesliga, ma per giocare in quarta serie, al SpVg Aurich, squadra dell’omonima città nella Frisia Orientale, all’estremo nordovest della Germania. In verità i dirigenti del club biancorosso sono venuti per osservare il suo compagno Steffen Beinthin, ma sono colpiti dall’altro Steffen. Gli propongono e il trasferimento e con la sua fidanzata di allora vanno a visitare Aurich. Il posto gli piace e ancor più gli piace l’offerta del club. Propongono a lui di fare un corso di formazione lavorativa in una locale officina (il cui proprietario era sponsor del club) come meccanico, alla sua fidanzata di allora danno un impiego nello stesso posto, oltre a una casa e a un’auto. In quell’estate 1991 arrivano altri nove giocatori dall’ormai ex DDR. Per tutti, Steffen compreso, è un nuovo mondo, l’unica cosa che rimane uguale è il calcio. Baumgart, che pensava di essere al capolinea della sua carriera e che inizialmente viveva in un appartamento in condivisione, ha un colpo di fortuna. Nel 1994, a 22 anni e dopo tre anni ad Aurich, lo chiama l’Hansa Rostock in 2.Bundesliga. L’allenatore, l’ex giocatore di Arminia Bielefeld e Borussia Dortmund Frank Pagelsdorf lo puntava già da qualche anno: l’aveva affrontato quando allenava la seconda squadra dell’Hannover nel 1991, l’avrebbe voluto all’Union l’anno seguente. Baumgart, una punta che segna ma che soprattutto lavora per la squadra, torna della “sua” Rostock, il club per cui tifava da bambino. Appena acquistato, causa l’infortunio dei titolari, viene schierato al debutto. Allo scadere segna il gol della vittoria contro i rivali del Hertha Berlino. La città sul Baltico, tranne una breve parentesi al Wolfsburg nel 1998-1999, sarà la sua “casa” fino al 2002. Da lì andrà all’Union Berlino.

Insieme al Hansa e all’Energie Cottbus, dove di fatto terminerà la sua carriera ad alto livello, è la squadra del cuore di “Baumi”. Due stagioni in 2.Bundesliga, concluse con una retrocessione in terza serie, 23 gol, ma soprattutto una grinta e un atteggiamento che lo fanno diventare un idolo dei tifosi. In quelle due stagioni i supporters dell’Union lo votano come “giocatore dell’anno” e lui ricambia. Allo stadio “An der Alten Försterei” appena sotto il tabellone c’è un suo mattone con scritta “Ci vediamo”. Ha ammesso che quello di Berlino è stato il periodo più bello della sua carriera e che i risultati degli Unioner sono sempre stati quelli che guardava insieme a quelli delle sue squadre. Nel 2004 il divorzio dal club berlinese e l’approdo a Cottbus. Con l’Energie conquista una salvezza in 2.Bundesliga, una promozione in Bundesliga e un tredicesimo posto nella massima serie. Se ne va nel gennaio 2008 per provare a portare il Magdeburgo in 3.Liga. Non ci riesce e chiude in alcune squadre minori. Intanto però ha già un altro piano, lui che ancora mentre giocava aveva seguito la squadra del figlio, vuole fare l’allenatore. I soldi per fare il primo corso glieli presta l’imprenditore della moda Hans-Peter Finkbeiner, convinto delle sue capacità che gli permette anche di tenere la sua casa di Berlino. Mai soldi saranno così ben spesi. “Baumi” fa la gavetta e approda in Bundesliga con il Paderborn. Nel 2021 la chiamata del Colonia e una prima parte di campionato di assoluto livello. Per molti una “big” è solo questione di tempo. E pensare che Steffen credeva di non avere possibilità di fare carriera nel calcio.

Ibrahim Sunday, una meteora ghanese in Bundesliga

Immagine NDR

Dodici giocatori di undici nazionalità diverse. Tanti sono i giocatori che militano in Bundesliga e che dal 9 gennaio al 6 febbraio saranno impegnati in Coppa d’Africa. Un legame, quello tra il Continente Nero e la massima serie tedesca, iniziato nel 1975. Ad arrivare, nell’estate di quell’anno, un 31enne attaccante ghanese, Ibrahim Sunday. “Ibi”, come è soprannominato in patria, non è un giocatore qualsiasi. Per più di un decennio è stato il cannoniere e soprattutto la bandiera del Asante Kotoko, club di Kumasi, nel sud del Paese, a circa 200 chilometri dal Golfo di Guinea. Un attaccante rapido e tecnico, che ha condotto la squadra da capitano a vincere nel gennaio 1971 la prima Coppa dei Campioni africana della sua storia. Il giorno della finale di ritorno, a Kinshasa, tra le tante persone che lo acclamano, c’è un europeo. Gli chiede di fare una foto con lui. Sunday acconsente. Non sa che quell’uomo è tedesco, si chiama Hans Wolff ed è il general manager del Werder Brema. Alla fine di quell’anno, dopo che Sunday è stato insignito dalla rivista francese France Football del premio di “calciatore africano dell’anno”, l’attaccante riceve una lettera. È senza mittente, è un po’ malridotta ma c’è una foto, quella scattata il giorno della finale di Coppa d’Africa. Wolff l’aveva mandata al Ministero dello Sport ghanese ad Accra, perché non conosceva l’indirizzo di Sunday. Il dirigente tedesco, famoso per aver detto “Conosco tutti i giocatori del mondo che siano indiani, eschimesi e cinesi” lo vorrebbe portare in Germania Ovest e per questo continua a scrivergli. C’è un piccolo problema. Le missive spariscono ogni volta che arrivano al ministero. Nel 1973 “Ibi”, che nel 1972 ha disputato le Olimpiadi di Monaco di Baviera, riceve un biglietto da visita di Wolff. Il dirigente tedesco gliel’ha fatto pervenire attraverso Mohammad Attiah, un suo connazionale che milita negli Stati Uniti e contro cui il general manager del Werder ha organizzato appositamente un’amichevole durante un tour negli States. Wolff e Sunday riescono a vedersi ad Accra e il dirigente tedesco gli ribadisce i suoi propositi. “Sei il giocatore che vogliamo”.

Per vederli realizzati ci vorranno altri due anni. È il 1975 e “Ibi”, che ha firmato un biennale, non è propriamente sereno. “Ebbi la mia possibilità – ricorderà nel 2010 al Tageszeitung, giornale progressista tedesco – ma non ero contento, non provavo nulla. Come sono le persone in Germania? Gli piacciono gli stranieri? Dov’è precisamente Brema? Nevica in inverno?”. I dubbi non se ne andranno mai via. Quando arriva a luglio 1975 nel nord della Germania piove a fa freddo. Il suo esordio, contro i dilettanti del TSV Grolland, non è per nulla. Due reti, ma anche qualche commento tagliente. Un suo compagno alla stampa dichiara: “Con lui puoi giocare nei posti piccoli, non di più”. Non è un problema tecnico, ma fisico. Sunday è molto leggero per quella Bundesliga. Le difficoltà più grandi rimangono però fuori dal campo. I suoi compagni sono amichevoli con lui, ma gli parlano poco, anche perché tra di loro praticamente nessuno conosce l’inglese. Ibrahim si è portato dei libri da leggere dal Ghana, ma dopo poche settimane li sa a memoria. Nessuno gli spiega come funziona intorno a lui. Sunday è spaesato, ha nostalgia di casa, il suo mentore Wolff si è “dimenticato” di lui, anche perché il “suo” Werder è impegnato ad evitare la retrocessione. Wolff però ha un’intuizione. Mette il 31enne ghanese, che prima abitava da solo, in un appartamento in condivisione. Il suo coinquilino è Klaus Matischak. È stato un calciatore del Werder e ora ne è un dirigente. Il 37enne “Zick-Zack” è soprattutto un tipo di compagnia. Ride e fa ridere, fa conosce la città all’attaccante e lo porta spesso dai suoi genitori. “Ibi” diventa un figlio aggiuntivo dei Matischak. In campo però non cambia molto, nonostante in panchina non ci sia più Herbert Burdenski ma Otto Rehhagel. Sunday si allena, non gioca mai, raramente va in panchina ed è giù, sia moralmente che fisicamente. Per provare a tirarlo su, il futuro allenatore della Grecia campione d’Europa decide di concedergli un po’ di spazio, con la squadra già salva.

È il 12 giugno 1976, quasi un anno dopo il suo arrivo in Germania Ovest, Sunday siede in panchina con il Rot-Weiss Essen. Al 46′ entra al posto di Jürgen Röber, con la squadra sotto per 1-0. Al 90′ sarà 2-0 per i biancorossi con “Ibi” autore di una prestazione incolore. Sarà la sua unica presenza in Bundesliga. Nella stagione successiva disputerà solo 18 minuti nel primo turno di Coppa di Germania contro il Südwest Ludwigshafen. Nel 1977 quando scade il contratto non lo rinnova, ma non lascia la Germania Ovest. “Non volevo tornare senza avere nulla in mano – dirà – volevo un piccolo trionfo, la certificazione che ne capivo ancora di calcio”. Mentre gioca tra i dilettanti del VSK Osterholz-Scharmbeck prende il patentino d’allenatore. Nel 1981, quando vola in Ghana, ha la A-Lizenz, il massimo attestato rilasciato dalla DFB. E in panchina si toglierà tante soddisfazioni, su tutti una Coppa dei Campioni africana con l’Asante Kotoko, nel 1983. Ora dirige un’accademia di calcio. Della Germania dirà. “Mi ha distrutto da giocatore, ma mi ha reso grande da allenatore. Non so. Devo esserle grata?”. Di certo Sunday ha aperto una strada che in tanti, come il connazionale Tony Yeboah anche per circostanze favorevoli, hanno percorso, riscrivendo una parte della storia della Bundesliga.

Un rosso che fa storia

Bild © Eintracht Frankfurt Museum

Solo sedici espulsioni in 17 giornate, di cui nove per somma di ammonizioni. Il girone d’andata della Bundesliga 2021/2022 è stato il più corretto degli ultimi trent’anni. Era infatti dalla stagione 1991/1992, quella in cui è stata introdotta in Germania l’espulsione per “doppio giallo”, che non si vedevano così pochi cartellini rossi. E pensare che l’”Arschkarte”, come viene chiamata in gergo, è nata proprio, grazie o per colpa di uno degli arbitri tedeschi più famosi di sempre. Si chiamava Rudolf “Rudi” Kreitlein e nel 1966, ai Mondiali d’Inghilterra stava arbitrando il quarto di finale tra i padroni di casa e l’Argentina. Al 35′ allontanò Antonio Rattin, il capitano dell’Albiceleste, ma la bandiera del Boca Juniors ci mise circa 10 minuti a uscire, litigando con Kreitlein (che non sapeva lo spagnolo e El Rata il tedesco) e non capendo la sanzione. Vedendo quell’incontro e confrontandosi con il fischietto tedesco l’arbitro Ken Aston sviluppò l’idea di un sistema universale di comunicazione in campo. Cartellino giallo: ammonizione, cartellino rosso espulsione.

Una rivoluzione che fu introdotta ai Mondiali del 1970 (il primo “giallo” fu sventolato da un altro arbitro tedesco Kurt Tschencher) e che nella Germania allora dell’Ovest arrivò nella pausa invernale della stagione successiva. Dopo la sperimentazione in un torneo indoor nella Regionalliga di Berlino nel dicembre 1970, il 10 gennaio 1971 a Waldemar Kurpanik, centrocampista del SV Alserborn, fu mostrato il primo cartellino rosso in una partita ufficiale in Germania, per un fallo su Jürgen Neumann del Wormatia Worms. Due giorni dopo la DFB, la Federcalcio tedesca, approvava definitamente l’uso dei cartellini. Per vedere una Rote Karte in Bundesliga, bisognerà però aspettare quasi tre mesi. È il 3 aprile 1971 e al Waldstadion si affrontano i padroni di casa dell’Eintracht Francoforte e l’Eintracht Braunschweig per la 27sima giornata di campionato. Al 17′ Jaro Deppe, attaccante degli ospiti, fa un brutto intervento su Friedrich “Friedel” Lutz, difensore e bandiera dell’Eintracht Francoforte, che viene colpito al tendine d’Achile, già infortunato in passato. Il campione di Germania del 1959 e finalista di Coppa dei Campioni 1960, reagisce, colpendolo da dietro con un calcio.

Lutz, che qualche giorno dopo ammise a Kicker di non ricordarsi cosa fosse successo, poi al sito del Museo dell’Eintracht ha memoria nitida del “dopo”. Già quando è arrivato l’arbitro e si è messo la mano nel taschino – ha dichiarato nel marzo 2021 – lo sapevo già. E sono andato direttamente negli spogliatoi. Per la cronaca l’incontro finirà 5-2 per le “Aquile” di Francoforte e Friedel, che nel 1973 si ritirerà, non sarà mai più espulso, come non era mai stato allontanato dal campo prima di quel giorno. L’arbitro Wilfried Hilker, che nel dicembre 1968 aveva allontanato dal campo con il dito Gerd Müller (per quell’unica espulsione il “Bomber der Nation” si prenderà 8 giornate di squalifica, poi ridotte e salterà il tour sudamericano della Nazionale), non sventolerà più un cartellino rosso in carriera. I due peraltro si rincontreranno a Bad Vilbel, la città d’origine di Lutz, nel 2014. Rideranno insieme dell’episodio, di cui peraltro Friedel si è sempre assunto ogni responsabilità, scusandosi praticamente subito. Per la sua partecipazione alla vittoria del Meisterschale 1959 la sua casella di posta è sempre piena di cartoline da autografare e per l’espulsione il suo telefono suona spesso, per le chiamate dei giornalisti. Più o meno tre anni dopo ci sarà pure il primo “rosso” a un Mondiale. Accadde a Germania ’74, a Berlino, all’Olympiastadion, nello stesso stadio dove Lutz nel 1959 visse il suo momento di gloria.

St.Pauli, la (prima) promozione inaspettata

Herbstmeister, campione d’autunno. O per meglio dire d’inverno. Il St.Pauli, club dell’omonimo quartiere di Amburgo, è al comando della classifica di Zweite Bundesliga al termine del girone d’andata e sogna il ritorno della massima serie dopo undici anni. Per i Kiezkicker si tratterebbe della sesta promozione in Bundesliga. Tutte imprese, contando anche il budget sempre molto ridotto a disposizione degli amburghesi, ma mai come la prima. Sì, perché all’inizio della stagione 1976/1977 il St.Pauli non è la favorita per salire nella massima serie. Nel 1975, un anno prima, gli amburghesi hanno perso alcuni pezzi importanti, come il bomber Rüdiger „Sonny“ Wenzel, dopo aver mancato per un solo punto l’accesso al torneo che poteva valere la Bundesliga. La squadra però è tutt’altro che scarsa. Ha in porta Jürgen Rynio, il portiere che vanta il poco invidiabile record di cinque retrocessioni con cinque squadre diverse, in difesa l’iconico baffo di Walter Frosch e tra centrocampo e attacco ottimi elementi come Rolf Höfert o Franz Gerber. Ci credono pure i dirigenti del St. Pauli che varano lo slogan “St.Pauli sulla strada verso l’alto”. Il problema che dopo undici giornate il bilancio è di undici punti (su ventidue disponibili). Sembra l’ennesima stagione senza acuti per il St.Pauli, ma la squadra inizia a crescere. Il merito, come ammetterà anni dopo Rolf Höfert è del 35enne allenatore Diethelm Ferner, da giocatore colonna del Werder Brema degli Anni Sessanta. “Tatticamente ci aveva fatto fare grandi progressi – ammette il giocatore che nella sessione invernale rifiuterà una buona offerta del Bayern Monaco – in più non siamo mai stati così in forma, dopo che nel ritiro precampionato in Danimarca facevamo regolarmente tre allenamenti al giorno”. Una condizione fisica ottima, precise idee tattiche e la mancanza di grandi infortuni trasformano il St.Pauli in una seria candidata alla promozione. Trascinata dalle reti di Franz Gerber e da una difesa solida i Kiezkicker mettono insieme 27 risultati utili consecutivi, prendendo la testa solitaria alla 28sima giornata con la vittoria contro il Bayer Leverkusen. A tenere il passo rimane solo l’Arminia Bielefeld di Ewald Lienen, ad ora uno dei massimi dirigenti proprio del St.Pauli. Gli amburghesi sono padroni ormai del proprio destino. Alla terzultima giornata il 7 maggio 1977, grazie alla rete di Nils Tune-Hansen, hanno battuto 1-0 l’Herford, consolidando il primato. L’Arminia gioca 24 ore in trasferta a Bonn. Il Sc Bonner sta lottando per non retrocedere, ma sembrano alla portata della squadra dei Blauen. Accade però l’incredibile. I padroni di casa vincono 2-1, dopo essere stati avanti anche per 2-0. Al triplice fischio il St.Pauli è in Bundesliga, per la prima volta da quando esiste il girone unico. C’è un problema. Le partite di 2.Bundesliga non vanno in diretta TV e per sapere qualcosa dei risultati bisogna ricorrere alla radio. Appena l’incontro finisce inizia il tam tam delle telefonate, ovviamente su rete fissa. In poco tempo la squadra si ritrova. Siedono tutti all’angolo tra Rothenbaumchaussee e Hallerstraße al “Bierbrunnen”. È un locale che sta a piano terra ed è un club di tifosi del HSV, i rivali cittadini del St.Pauli. Il proprietario è Horst Blankenburg, a quel tempo libero dell’Amburgo, che peraltro abita con la famiglia al piano di sopra. Al club del nord della Germania cominciano ad arrivare le congratulazioni: quelle del ct Helmut Schön che nel dopoguerra ha vestito per poco la maglia del St.Pauli, di Günter Netzer, general manager del HSV. E poi c’è il telegramma da Londra di Hans Apel, socio del St.Pauli e soprattutto ministro delle Finanze del governo socialdemocratico di Helmut Schmidt. Una settimana dopo a Solingen Apel saluterà personalmente i neopromossi. I calciatori avranno tempo per festeggiare. Dopo un party ad Amburgo volano a Mallorca con una cassa comune e un po’ di denaro donato da Mariano Perez, proprietario sulla Reeperbahn del night club “Café Lausen”. Un’amichevole ma soprattutto alcol e divertimenti per la squadra che a settembre si toglierà la soddisfazione di battere l’Amburgo nel primo derby cittadino in Bundesliga. Non importa se poi a fine stagione 1977/1978 i Kiezkicker torneranno in 2. Bundesliga e che in pochi anni ricadranno, causa problemi finanziari, nelle serie minori. Intanto loro un’impresa l’hanno compiuta, festeggiata pure a casa dei rivali cittadini.

Arminia Bielefeld, un colpo all’”Olympiastadion”

Diciannove punti. Tanti separano attualmente il Bayern Monaco dall’Arminia Bielefeld, che si affrontano in questo turno in Bundesliga. Due club, con grande tradizione ma con palmarès e storie totalmente diversi, “sbilanciati” a favore degli attuali di campioni di Germania. C’è stato un pomeriggio del marzo 1979, in cui i ruoli però sembravano essersi invertiti, almeno per novanta minuti. Era un momento particolare per entrambi i club. Il Bayern attraversava probabilmente da uno dei capitoli più difficili della sua centenaria storia. Da qualche mese i vertici della società guidata dal presidente Wilhelm Neudecker, l’uomo che aveva creato il primo grande Bayern “europeo”, avevano sostituito il tecnico Gyula Lorant. I dirigenti avevano scelto come successore Pal Csernai, l’assistente di Lorant. Un intellettuale del Gioco che però provava a tenere a freno uno spogliatoio turbolento e in pieno ricambio generazionale. Per informazioni chiedere a Gerd Müller, con cui il magiaro era andato faccia a faccia. L’aveva prima sostituito a partita in corso e poi proprio per l’incontro con l’Arminia l’aveva spedito in tribuna. Contro il club di Bielefeld mancava pure Paul Breitner, malato. Con queste assenze gli allora tre volte campioni d’Europa affrontavano un Arminia che occupava la dodicesima posizione in classifica. Non male per una formazione neopromossa, guidata da una serie di giovani e semisconosciuti, otto dei quali erano alla prima stagione in Bundesliga. Tra di loro Uli Stein, futuro portiere dell’Amburgo e Frank Pagelsdorf che da allenatore arriverà fino in massima serie. Una “banda” affidata alle cure di Otto Rehhagel. Non era ancora “Re” ma era specializzato, già dai tempi del Kickers Offenbach, nel costruire squadre con gli elementi a disposizione. In teoria, nonostante le assenze dei bavaresi, sarebbe una partita senza storia. Il Bayern ha pur sempre in attacco il giovane Karl-Heinz Rummenigge, Sepp Maier tra i pali, appena premiato da Kicker come miglior portiere del 1978 e Georg Schwarzenbeck a guidare la difesa. Il problema invece si rivela soprattutto la fase difensiva. Gli attaccanti dell’Arminia li mettono sempre in difficoltà. Gli 11mila tifosi accorsi nell’immenso Olympiastadion se ne accorgono subito.

Al 23′ sono già 2-0 per gli ospiti per la doppietta di Norbert Eilenfeldt. Nella ripresa non va meglio, con l’Arminia che nel primi 25 minuti del secondo tempo, ne segna altri due, l’ultimo con un tiro da lontano. È un 4-0, quasi impensabile al fischio d’inizio. Al 65′ per Csernai piove sul bagnato. Rummenigge deve uscire perché infortunato. Al 90′ con la sconfitta che brucia iniziano i processi. Il tecnico magiaro del Bayern è chiaro: “I quattro gol ce li siamo fatti noi – commenta – l’abbiamo presa troppo alla leggera”. Rehhagel invece è pungente. “Saluti da Bielefeld”. Il ko, che è stata l’ultima partita di Gerd Müller prima di volare negli Stati Uniti, lascia però strascichi, soprattutto dalle parti di Monaco. Neudecker minaccia i giocatori e soprattutto decide, da solo, di ingaggiare l’austriaco Max Merkel. Un genio, uno che in Baviera aveva vinto già due titoli, con il Monaco 1860 e con il Norimberga ma che aveva fama di duro. La sua ultima panchina in Bundesliga, infatti era finita nel 1976, anche perché i giocatori dello Schalke non amavano i suoi metodi e la sua personalità forte. Anche per questo i calciatori del Bayern si oppongono al suo ingaggio, annunciando uno sciopero. Un “ammutinamento” che porterà alle dimissioni del presidente Neudecker, in carica dal 1962. Al contrario Csernai rimarrà in panchina e l’anno dopo conquisterà pure il Meisterschale. All’Arminia andrà decisamente preggio visto che retrocederà in 2.Bundesliga al termine della stagione. Quella vittoria di marzo rimarrà l’unica del club di Bielefeld a Monaco. Rehhagel in Baviera ci tornerà, sia da allenatore del Bayern che da avversario, battendo ancora i padroni di casa. Sempre con squadre “outsider”, perché lui prima di essere “Re Otto” era già l’uomo dei miracoli.